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IL PROLUNGAMENTO DEL PREAVVISO IN CASO DI RECESSO DEL LAVORATORE “E’ ILLEGITTIMO”

Alcune banche, in deroga alla disciplina corrente, sottopongono alla firma dei lavoratori accordi che obbligano i medesimi, in caso di dimissioni, a concedere al datore di lavoro un periodo di preavviso più lungo non solo di quello previsto dal contratto collettivo, ma addirittura maggiore rispetto a quello che sarebbe dovuto al datore in caso di licenziamento.

E ciò per lo più al fine di limitare la "migrazione" di taluni lavoratori verso aziende concorrenti. Il Prof. Antonio Vallebona, che insegna diritto del lavoro presso l'Università di Trieste, ha mostrato, notevoli perplessità circa la legittimità di tali patti.

Vediamo le ragioni in alcuni brani dell'intervista rilasciata dal noto giurista in esclusiva alla nostra rivista.

1. La pattuizione a livello individuale, nel contratto di assunzione o successivamente, di un prolungamento (ad es.fino a dodici mesi) del preavviso di dimissioni rispetto a quello previsto nel contratto collettivo determina indubbiamente un notevole squilibrio dei diritti e dei doveri derivanti dal contratto. Tale clausola può considerarsi legittimamente apposta?

L'obbligo di preavviso (art.2118 cod.civ.) tutela la parte che subisce il recesso, sicché, in caso di dimissioni del lavoratore il preavviso tutela il datore di lavoro.
Ne consegue che per il preavviso di dimissioni il lavoratore ha interesse ad una durata più breve possibile, mentre il datore di lavoro ha interesse ad una durata più lunga. 

Da questo punto di vista le norme, di legge o di contratto collettivo, che fissano la durata del preavviso di dimissioni sono per loro natura inderogabili in peius e, quindi, vietano alle fonti inferiori la previsione di un preavviso più lungo, come tale in contrasto con il principio del favor per il lavoratore.

Occorre sottolineare che il contenimento della durata del preavviso di dimissioni protegge la libertà della persona del lavoratore. Nel contratto a tempo indeterminato, in origine vietato proprio per il pericolo di rapporti neoservili, questa libertà è attualmente garantita dal principio di libere dimissioni, con il solo limite del preavviso (art.2118 cod.civ.). Ma se il preavviso è troppo lungo (ad es. dodici mesi) la libertà del lavoratore finisce per essere comunque conculcata.

Non a caso la disposizione dell'art.2118, primo comma, cod.civ. rinvia la fissazione del termine di preavviso non all'autonomia individuale, bensì alle norme corporative (e quindi ora ai contratti collettivi di diritto comune), agli usi o all'equità giudiziale. In tal modo viene scongiurato il pericolo della imposizione al lavoratore da parte del datore di lavoro di un preavviso di dimissioni eccessivamente lungo.

Inoltre, per gli impiegati, sono ancora in vigore i termini di preavviso previsti dall'art.10 del RDL n.1825 del 1924 (c.d. legge sull'impiego privato), che per il licenziamento possono essere pattuiti "in misura più larga" (art.10,c.1) onde favorire il lavoratore, mentre per le dimissioni il rinvio agli stessi termini (art.14, c.1) non sembra comprendere anche la facoltà di ampliamento che qui svantaggerebbe il lavoratore. In conclusione vi sono fondate ragioni per sostenere la nullità dell'accordo individuale di prolungamento del termine di preavviso di dimissioni previsto dal contratto collettivo o dalla legge sull'impiego privato.

2. Se no, la legittimità del patto può derivare dalla previsione di un apposito compenso in denaro, oppure dalla previsione di una qualifica superiore, o infine dall'impegno aziendale a fornire al dipendente una "costosa" formazione professionale in aggiunta a quella normale garantita alla generalità dei lavoratori?

Il vincolo alla libertà del lavoratore derivante da un preavviso di dimissioni troppo lungo è intollerabile a causa della disposizione (art.2118, c.2, cod.civ.) secondo cui la parte che non adempia all'obbligo di preavviso deve pagare all'altra parte un importo pari alle retribuzioni del periodo di preavviso (c.d. indennità di mancato preavviso).

Infatti, nel caso di preavviso di dimissioni eccessivo (ad es. dodici mesi), l'entità di questa penale di fonte legale diverrebbe tanto elevata da impedire di fatto al lavoratore di risolvere in anticipo il rapporto, costringendolo a rispettare un vincolo di durata incompatibile con la libertà della persona.

Del tutto diversa è, invece, l'ipotesi in cui le parti del rapporto individuale, nel pattuire un preavviso più lungo di quello previsto dal contratto collettivo, stabiliscano un apposito compenso aggiuntivo e, soprattutto, eliminino consensualmente la onerosa penale legale (indennità di mancato preavviso) sostituendola, per il caso di violazione da parte del lavoratore dell'obbligo pattuito, con la mera perdita o restituzione del compenso aggiuntivo rimasto privo di causa.

In questo caso non è violata alcuna norma inderogabile, poiché il lavoratore può liberarsi del rapporto senza rispettare il maggior preavviso semplicemente rinunziando al compenso superminimale pattuito ad hoc e senza ulteriori conseguenze pregiudizievoli.

Sicché qui sarebbe corretto parlare non tanto di obbligo di maggior preavviso, quanto di onere per l'ottenimento e la conservazione del compenso superminimale. Ovviamente il discorso si complica se al posto del compenso in denaro è pattuita l'assegnazione di una qualifica superiore o una formazione professionale aggiuntiva.

Invero se la qualifica è stata attribuita e sono state svolte le corrispondenti mansioni la relativa retribuzione non è più ripetibile dal datore di lavoro, così come non è intrinsecamente ripetibile la formazione già impartita. Sicché, in questi casi, occorre verificare quale conseguenza sia stata in concreto pattuita a carico del lavoratore per l'ipotesi di mancato rispetto del maggior preavviso convenuto, onde valutare la legittimità della complessiva pattuizione.

3. Ed ancora, sempre in caso di risposta negativa, come si spiega la non contestata diffusione dell'analoga prassi in campo dirigenziale?

Per i dirigenti valgono le stesse considerazioni svolte per ogni altro lavoratore, non avendo alcun significato dirimente eventuali prassi difformi.

4. Alla legittimità di tali accordi può concorrere un'interpretazione dell'art.2118 c.c., nonché dell'art.63 del nuovo CCNL ABI, nel senso di un rinvio incondizionato all'autonomia individuale per la determinazione del preavviso in caso di dimissioni?

Il rinvio del CCNL ABI (art.63, c.1) all'autonomia individuale ("salvo diverso termine concordato") è legittimo se viene inteso come attribuzione della facoltà di ridurre il preavviso di dimissioni, argomentabile dalla salvezza espressa dell'intero trattamento di preavviso, che ha un senso solo rispetto ad una pattuizione riduttiva, al pari della analoga salvezza disposta dal successivo secondo comma per il caso di esonero del lavoratore dimissionario dal preavviso.

Ulteriore argomento potrebbe ricavarsi dalla differenza rispetto all'art.84 del CCNL 1/8/1955 recepito nel d.legs. ex lege n.741/59, che espressamente si riferisce ad un accordo "per abbreviare o prolungare il termine". Nel caso in cui, invece, dovesse prevalere l'interpretazione opposta, secondo cui il vigente CCNL consentirebbe all'autonomia individuale anche di allungare il termine di preavviso, allora la clausola dovrebbe considerarsi nulla per violazione dell'art.2118 cod.civ. e delle ricordate disposizioni della legge sull'impiego privato quanto agli accordi per un preavviso di dimissioni più lungo di quello previsto in detta legge.

5. Come spiega che tali patti siano stati talvolta inseriti anche nei contratti di formazione e lavoro?

Il contratto di formazione e lavoro è un contratto a tempo determinato, in cui è escluso per definizione il recesso con preavviso. Pertanto non sono compatibili con tale tipo di contratto patti relativi al preavviso. Si può, invece, ipotizzare la predeterminazione pattizia ex art.1382 cod.civ. di una penale sostitutiva del risarcimento del danno per il recesso ante tempus senza giusta causa.

6. Esiste una correlazione fra tali accordi ed i c.d. "patti di stabilità"?

I patti di stabilità di solito estendono la tutela reale contro il licenziamento ingiustificato a rapporti esclusi dal relativo campo di applicazione oppure escludono temporaneamente la facoltà di licenziamento per ragioni oggettive. Da questo punto di vista non v'è alcuna correlazione con i patti di prolungamento del preavviso di dimissioni, che, appunto, riguardano la libertà di dimissioni e non il potere di licenziamento.

7. E' possibile intravedere una familiarità di questi accordi con il patto di non concorrenza?

Il patto di non concorrenza limita la libertà del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto. Per questo la legge (art.2125 cod.civ.) impone per la legittimità di tale patto una serie di requisiti. Una analogia con il patto di prolungamento del preavviso di dimissioni è solo nell'effetto di limitazione della libertà del lavoratore. Per il resto si tratta di istituti completamente diversi, sottoposti a differenti discipline. Si può osservare, tuttavia, che la funzione protettiva della libertà del lavoratore nel patto di non concorrenza è assolta dai ricordati requisiti legali di validità, mentre nelle dimissioni è assolta dalla inderogabilità della durata massima del preavviso.

8. In caso di dimissioni come può tutelarsi il lavoratore che abbia firmato un patto di tal sorta?

Se non si tratta di un patto lecito (secondo quanto indicato nel punto 2 che precede N.d.R.), l'eventuale patto illegittimo di prolungamento del preavviso è nullo ed il lavoratore non è tenuto a rispettarlo, né a corrispondere l'indennità di mancato preavviso, con conseguente diritto a richiedere in giudizio quanto indebitamente trattenuto dal datore di lavoro a tale titolo. Ovviamente l'esito del giudizio dipende dal convincimento del giudice circa la ricostruzione fin qui esposta, che non è assistita da precedenti giurisprudenziali stante la novità della questione.